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Laureata in lettere classiche ho preso anche una specializzazione in archeologia. Mi vedevo lanciata nello studio della preistoria ma poi la passione per le lettere ha ripreso il sopravvento. Ho aiutato i ragazzi con i compiti, ho fatto la guida ai bambini per spiegare loro il favoloso lavoro dell'archeologo...ma c'era sempre questo fastidioso richiamo alla pagina stampata. Poi ho capito...la mia vita deve essere votata alla lettura e, perché no, anche alla scrittura.

sabato 23 maggio 2020

RACCONTO - terza parte

LE ABITUDINI – terza parte

di Valeria Rago

 

 

Nadia si incamminò verso la fermata dell’autobus in uno stato di trance, non vedeva nulla e rischiò di travolgere un cagnolino minuscolo che cercava con calma il posto giusto dove fare i bisogni. Lo sguardo assassino del padrone del cane fu l’unica cosa di cui si accorse. Arrivò a piazza Vittoria senza dare più nemmeno un’occhiata al mare lungo il percorso, aveva nelle orecchie le parole della sua amica e il cuore pesante. Alla fermata non c’era posto per sedersi, stando in piedi con le braccia strette al petto cercò di concentrarsi sugli altri. Una donna con i capelli di un rosso innaturale stava dicendo a qualcuno al telefono che il colloquio era andato male, di nuovo. Due ragazzini si sfidavano a chissà quale gioco con i rispettivi cellulari, gli sguardi furtivi che lanciavano intorno rendevano evidente che non avrebbero dovuto trovarsi lì. Una signora era seduta pesantemente, la borsa nera posata sulle gambe e le braccia sopra di essa, lo sguardo era rivolto diritto davanti a sé, perso in qualche punto della sua vita. Nadia non voleva prendere l’autobus, voleva camminare ma il ritorno a casa sarebbe stato davvero troppo lungo a piedi, così optò per un compromesso e, scesa a piazza Municipio, si avviò di buon passo. Arrivata a piazza Bovio era già in un bagno di sudore, l’aria era non calda ma appiccicosa, sul mare non se ne era resa conto. Lungo il Rettifilo la gente era tanta, chi parlava al telefono, chi guardava le vetrine, chi semplicemente passeggiava, come se a quell'ora del mattino già non avesse uno scopo. Iniziò la salita di via Mezzocannone osservando gli universitari sempre di fretta, probabilmente dovevano seguire corsi in diversi edifici e non avevano tempo da perdere. Beh nemmeno lei ne aveva, doveva studiare, gli esami non erano lontani e mancava ancora un bel po’ prima di potersi definire preparata. Ma Nancy…si fermò di colpo nel mezzo del marciapiede, costringendo quello che sembrava un professore ad una deviazione improvvisa. Nancy aveva sbagliato, punto. Non doveva essere così cattiva, avrebbe dovuto capire la situazione ed appoggiarla. Nadia sapeva che quella del progetto in America era un’occasione, ma non se la sentiva, non se la sentiva proprio. Questa decisione non era stata nemmeno frutto di lunghe discussioni con i genitori, di riflessioni approfondite, conflitti interiori e valutazioni dei pro e dei contro, assolutamente no. Il professore un giorno l’aveva convocata nel suo studio, le aveva presentato la proposta e concesso qualche giorno per pensarci. Dopo due ore Nadia era di nuovo da lui con un netto rifiuto e i sentiti ringraziamenti per aver pensato a lei. Semplicissimo, nessun dubbio, nessun ripensamento. Una musica dolcissima la ridestò dai suoi pensieri: era arrivata a piazza San Domenico Maggiore dove il solito violinista di strada allietava i passanti con la sua bravura. Un’amica studentessa di lettere le aveva raccontato di quanto fosse meraviglioso trovarsi a studiare nella biblioteca universitaria che affacciava proprio sulla piazza, il silenzio della biblioteca interrotto solo da quel suono che filtrava dalle finestre, sembrava di essere in una fiaba. Nadia non stentava a crederlo, anche lei era ferma lì ad ascoltare, la gente le passava vicinissimo sfiorandola ma lei non se ne accorgeva. Fu tentata di camminare verso Piazza Del Gesù, perdersi tra la folla per poter riflettere, ma l’esigenza dello studio la riportò alla realtà, spingendola ad iniziare di nuovo a salire verso il Policlinico. Nancy non poteva capire, aveva due fratelli e genitori piuttosto giovani, non conosceva il peso di dover pensare da sola ad una madre e ad un padre di una certa età che magari da soli sarebbero andati in depressione. No, era impossibile, aveva fatto benissimo a non informarli nemmeno. Aveva evitato discussioni inutili e bugie, perché loro di sicuro avrebbero mentito per spingerla ad andare, assicurandole che se la sarebbero cavata. E poi non voleva lasciare la sua città, allontanarsi dagli amici di una vita…le belle serate a guardare film insieme o in giro per locali. Gli amici erano fondamentali per lei, come avrebbe fatto senza? E poi dov'era la tragedia? Anche se dopo la laurea avesse preso le redini del negozio paterno sarebbe stato comunque un lavoro no? Non era esattamente la sua passione, questo era vero, ma la sua vita sarebbe stata bella, proprio come se l’era sempre immaginata. Nancy, prima o poi, avrebbe accettato e capito, doveva capire. Ancora musica, questa volta veniva dal conservatorio, c’era anche una voce, un soprano forse, che si esercitava. Salì i gradini verso piazza Bellini con il sorriso sulle labbra, adorava quella piazza. Le era sempre sembrato un luogo quasi parigino, in cui artisti e letterati potevano incontrarsi per prendere un caffè. Immaginava le dotte conversazioni che si sarebbero tenute ai tavolini dei bar ed aveva sempre pensato che quello sarebbe stato il posto ideale per riunire i pittori e far esporre le loro opere. La vedeva così, e le veniva sempre da ridere al pensiero che i pittori lei se li immaginava tutti più o meno simili: gilet, basco in testa e macchie di colore sparse qua e là. Si era lasciata un po’ troppo influenzare dai film e dai libri. Mentre saliva ancora si sentiva serena, in pace con sé stessa e anche le parole di Nancy le apparivano meno gravi. Arrivata davanti al portone di casa non aveva più dubbi, il futuro sarebbe stato come l’aveva pianificato, Nancy l’avrebbe perdonata ed avrebbero continuato serenamente la loro amicizia, senza che nulla potesse modificare il corso degli eventi.

Il mare quel giorno era incredibilmente piatto, una tavola. Il sole del pomeriggio era caldo ma piacevole, tutta la giornata era stata splendida. Nancy osservava da lontano Castel dell’Ovo, il gigante buono che si adagiava leggero sulle acque. Non sembrava un luogo reale. Via Caracciolo era abbastanza viva, molti avevano approfittato del clima piacevole e si erano riversati in strada. Bambini in bici, cani a spasso, turisti che facevano foto, due innamorati che si baciavano poco più in là appoggiati al muretto. Wow, quante vite tutte insieme, si trovò a pensare Nancy. Tutti condividiamo gli stessi spazi e li riempiamo con le nostre storie, senza mai incontrarci veramente però. Era bello osservare, ormai non faceva minimamente caso agli sguardi rivolti verso di lei: una sedia a rotelle ha sempre la capacità di attirare l’attenzione. Aveva poco tempo, sperava che Nadia si sbrigasse. Proprio in quel momento una mano le si posò su una spalla e l’amica apparve trafelata, prese posto sullo stesso punto del muretto, quello di sempre. Nancy sentì un tuffo al cuore. Non ne avevano parlato più dell’America, si erano più o meno riappacificate ma la verità era che Nancy avrebbe dovuto dirle una cosa e non l’aveva ancora fatto, non sarebbe stato piacevole. «Allora come va lo studio?», chiese per iniziare a parlare. Nadia scoppiò a ridere, «Oddio uno strazio, sono distratta e non mi piace quello che devo studiare. A volte i docenti proprio non si rendono conto di quanto possano essere pedanti, alcune cose sono superflue. Appena avrò dato questo cavolo di esame io e te andiamo a festeggiare nel nostro solito locale, è davvero troppo che manchiamo da lì!». Ecco, le abitudini, Nancy sapeva che per l’amica quella sarebbe stata la cosa più difficile: modificare, anche se non per sempre, la propria quotidianità. Per Nadia non era assolutamente così, anche lei amava i loro rituali, ma non avrebbe esitato un attimo a modificarli per affrontare nuove sfide, in effetti era quello che aveva appena fatto e non poteva più rimandare il momento in cui avrebbe informato Nadia. «Senti Nadia, c’è una cosa che ti devo dire e non posso più rimandare. Ho già sbagliato a far passare tutte queste settimane. È arrivato il momento». Guardandola sempre negli occhi, disse: «Io martedì prossimo parto. Mi hanno offerto un corso di perfezionamento retribuito a Parigi, sai quanto amo la Francia…e poi era un’occasione straordinaria che non potevo rifiutare. Non volevo rifiutare. Sono emozionata e contenta, e anche terrorizzata. Ma non vedo l’ora di partire. Durerà poco più di dieci mesi e poi sarò di nuovo qui a romperti le scatole con i miei giudizi taglienti, di cui comunque mi scuso in ritardo. Non avrei dovuto». Era preoccupante l’espressione con cui Nadia la osservava, quella di chi si è appena reso conto di aver dimenticato di fare una cosa importante e ormai non può più rimediare. Sembrava che Nancy non fosse più lì ed era una sensazione spiacevole. Il silenzio si prolungava e così la ragazza sulla sedia a rotelle cercò di stemperare: «E dai non fare quella faccia, sembra che tu abbia appena mangiato qualcosa di disgustoso, hai la bocca contratta e sembri non guardarmi sul serio. Dì qualcosa almeno. Fammi gli auguri o le congratulazioni, dimmi che sei contenta per me!». Come se Nancy non avesse parlato, Nadia aprì bocca: «Te ne vai a Parigi?»; «Si, è così»; «Su una sedia a rotelle?». Nancy avvertì le prime avvisaglie della rabbia, ma la tenne a bada. «Si, su una sedia a rotelle»; «E come fai?». In maniera didattica la ragazza le spiegò che inizialmente l’avrebbe accompagnata il fratello per aiutarla ad ambientarsi, avrebbe avuto comunque assistenza continua e poi sarebbe subentrato l’altro fratello. «Figurati poi se mamma e papà non vengono a Parigi. Avrò sempre chi mi aiuterà, potrai farlo anche tu se vorrai venire a trovarmi». «I francesi sono snob e arroganti»; «Sono luoghi comuni Nadia, e lo sai. E poi è Parigi»; «La Tour Eiffel, il Louvre, non è che mi entusiasmino. Poi lo sai che devo studiare»; «Per dieci mesi di seguito?»; «Ogni tre mesi ci sono esami e, nel frattempo, bisogna prepararsi». Nancy non aveva molti argomenti, il muro era stato eretto e non si sarebbe sgretolato, non per il momento. «Quindi non verrai?»; «No, non verrò»; «Ma sei contenta per me?». Nadia si voltò a guardare il mare, ora il cielo era leggermente più scuro, la sera stava arrivando. Aveva la mente sgombra, e una sensazione di vuoto, giù nello stomaco. Sentiva solo un campanellino d’allarme, da qualche parte dentro di lei. Era la paura, una paura con la quale avrebbe convissuto per un po’. Dieci mesi passano, ma se a Nancy Parigi fosse piaciuta? E se si fosse resa conto che, su una sedia a rotelle, era più semplice vivere lì che a Napoli? «Si, sono contenta per te», lo disse in una maniera talmente meccanica che Nancy non si lasciò ingannare. «Ok, va bene. Ora io devo andare, è arrivato mio padre e ho ancora un po’ di cose da fare e da organizzare. Ci vedremo prima che io parta?». Nadia rispose a mezza voce: «Non voglio disturbare i tuoi preparativi, magari ci sentiamo per telefono». Questa volta Nancy non iniziò a correre, andò via lentamente sapendo di aver dato un dolore all'amica, ma questo non poteva fermarla. Ricacciò una lacrima e si diresse verso suo padre. Nadia rimase lì, con il suo vuoto nello stomaco, pensando alle abitudini, alla sua vita e al mare. Avrebbe voluto annegare le sue solitudini in quelle acque, ma sapeva che il mare, subdolo, le avrebbe riportate a galla. Scese dal muretto ed iniziò lentamente il percorso per tornare a casa, cercando di ignorare il fatto che intorno a lei l’aria, i profumi, le voci, tutto sembrava cambiato.  

 


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